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Kuantan

Un fine settimana sulla costa orientale malese

Escursione nella parte a Est della Malesia peninsulare

Primo fine settimana di febbraio 2013: venerdì è ancora vacanza (Giorno della Malesia), ed anche se sono passati solo due giorni dal ritorno da Yogyakarta, non resisto alla tentazione di farmi un altro giro, questa volta da solo, per visitare la zona intorno a Kuantan, sulla costa orientale. Così la mattina di venerdì primo del mese, sotto uno splendido sole da stagione secca nel cielo azzurrissimo, mi dirigo alla stazione delle corriere Putra da dove partono gli autobus per la costa orientale. Arrivatovi però, scopro che gli autobus per Kuantan partono da un’altra piccola stazione lì vicino, la stazione di Pekeliling, proprio accanto a quella della LRT di Titiwangsa, giusto una fermata da Putra.

 

Il viaggio in autobus dura quasi quattro ore attraverso le montagne e le foreste del centro della Malesia, e infine arriviamo a Kuantan, capoluogo della regione del Pahang. Come già avvertiva la guida, Kuantan è una cittadina bruttina e disordinata, che avrei potuto benissimo evitare, ma la mia curiosità era prevalsa ed avevo già deciso di fermarmici una notte prima di proseguire per la mia meta principale: il villaggio di Pekan poco più a sud. Sistemate le mie cose in una pensione abbastanza squallida ma a buon mercato vicino alla stazione delle corriere, vado a farmi un giro per il centro fino al lungo fiume (che ha dato il nome alla città: sungai Kuantan). Kuantan, come molte delle città costiere, si è sviluppata lungo un fiume, logica scelta per garantirsi un porto protetto a poca distanza dalla foce. Nel giro di un’oretta credo che vedo tutto quello che vale la pena visitare in questa città: l’ampio fiume – sulla sponda opposta del quale vedo solo palmeti –, qualche edificio coloniale, le onnipresenti case bottega cinesi nel vecchio quartiere accanto al fiume e la magnifica moschea nazionale, con la sua cupola bianca e azzurra ed i quattro minareti in stile ottomano, situata proprio davanti al padang. La serata la passo tra i miei libri ed un caffè internet.

 

La mattina dopo fatta colazione mi dirigo di nuovo verso il fiume dove, secondo la mia guida, si troverebbe la fermata degli autobus che vanno a Pekan, 44 chilometri a sud del capoluogo. Aspetto per un’ora, passano vari autobus ma non il mio, poi ad un certo punto eccolo, finalmente… ma non si ferma! Autista disgraziato! Non mi rimane che aspettare un’altra ora per prendere l’autubus seguente… Bisogna avere pazienza in questa parte del mondo, se no è la fine! Comunque ridendo e scherzando verso le tre del pomeriggio arrivo finalmente a Pekan e mi dirigo direttamente alla guesthouse raccomandatissima dalla mia guida: la Chief’s Resthouse. E fortunatamente c’è una stanza libera in questo stupendo albergo ubicato in una grossa casa tradizionale malese su palafitta interamente di legno eretta nel 1929. Anche solo per passare una notte in un posto così valeva la pena essere venuti fino a qui, comprese le due ore di attesa dell’autobus (che poi scopro partiva dalla stazione delle corriere proprio accanto al mio albergo a Kuantan!). E poi Pekan è bellissima: un grosso kampung, un villaggio malese punteggiato da vecchie mansioni di legno e tante belle case tradizionali su palafitta tra orti e palmeti, oltre al palazzo del sultano del Pahang, appena visibile da dietro i cancelli. Il centro di Pekan invece, sviluppatosi accanto al fiume Pahang, il più lungo della Malesia, consiste nelle solite quattro strade affiancate da edifici di cemento di due o tre piani con una moltitudine di botteghe e ristorantini, oltre ad una lunga fila di case-bottega cinesi più interessanti di fronte al lungofiume. In più ci sono un paio di edifici coloniali molto carini appena fuori dal centro. Pekan è la tipica cittadina di provincia malesiana: la maggioranza dei malesi vivono fuori, nei kampong, mentre i cinesi e gli indiani vivono in centro.

 

Volevo darmi una rinfrescata nell’albergo prima di uscire, ma ci devo rinunciare dato che l’erogazione dell’acqua è stata sospesa per alcune ore, mi dicono, a causa di lavori in corso. Poco male, in ogni caso dieci minuti di cammino sotto il sole e sarò di nuovo inzuppato di sudore. Quindi dopo essermi spalmato per bene la crema solare sulla pelle esposta, vado a comprare una bottiglia d’acqua e poi mi metto subito in cammino per esplorare la parte malese di Pekan. Il cielo è immacolato ed il sole scotta, ma è una meraviglia potermeli godere dopo una stagione delle piogge che non dava tregua. Mi faccio una lunga passeggiata lungo strade fiancheggiate da orti e palmeti, da case di legno su palafitta, campi, torrenti, bella gente che mi sorride, poi finalmente riesco a raggiungere il centro, la parte urbana già descritta, dove mi fermo in un ristorante indiano di quelli tipici aperti sulla strada con grossi ventilatori sul soffitto per farmi un roti canai ed una tazza di teh tarik in mezzo ad avventori malesi, cinesi e indiani. Nessuno straniero qui a Pekan, che bellezza!

La Moschea del Sultano Abdullah

Poi riprendo il cammino, questa volta lungo il fiume per raggiungere il museo del Sultano Abu Bakar che però è già chiuso, ubicato in un bel palazzo di stile neoclassico inglese, con un ampia fontana sul davanti. Proseguo ancora e dopo pochi minuti… meraviglia! Vedo alcuni splendidi esemplari di bucero volare verso un grosso albero accanto alla strada e posarvisi, abbastanza vicini da poterli osservare bene da dove mi trovo. Pochi metri ancora e finalmente raggiungo la vecchia moschea del Sultano Abdullah oramai in disuso. Mi piace però, piccolina, tutta bianca con una cupola di un azzurro oramai sbiadito, circondata dal cimitero mussulmano. Fu costruita sotto gli inglesi nel 1932 e dà un po’ di tristezza vederla lì vuota e desolata. Pochi metri più avanti c’è invece la moschea attuale, la moschea di Abu Bakar, più grande, in stile più moderno, con cupole dorate a forma di cipolla, ma non così bella. La sera vado a cenare in un ristorantino non lontano dalla guesthouse, e mi faccio un altro giro per il centro oramai vuoto. Al ritorno all’albergo finalmente l’erogazione dell’acqua è stata ripristinata e posso farmi la mia agognata (e necessarissima!) doccia prima di andare a letto a leggere un po’.

 

Quando apro gli occhi la mattina dopo, la stanza buia è allegramente illuminata da decine di sottili fasci di luci, la luce del giorno che filtra attraverso le strette fessure fra una trave di legno e l’altra, dalle pareti e persino dal pavimento! Il nuovo giorno che mi dà il benvenuto.
La giornata è nuvolosa, ma ancora non piove. Mi faccio un altro giretto e poi vado a prendere l’autobus dalla stazioncina delle corriere per tornare a Kuantan. Prima di fare ritorno a Kuala Lumpur, però, voglio compiere uno dei miei “mini pellegrinaggi” buddisti. Non lontano da Kuantan c’è infatti una caverna in cui una cinquantina di anni addietro venne a meditare un monaco thailandese, ed ora vi si trova un piccolo tempio buddista theravada e, in fondo alla caverna, un Buddha reclinato. Purtroppo non ci sono mezzi pubblici diretti per arrivare alla caverna, quindi l’unica è contrattare a un prezzo decente un taxi perché mi porti a Gua Cheras (così si chiama la caverna) e indietro. Mi metto d’accordo con un simpatico tassista malese per 90 ringgit (una ventina di euro): andata e ritorno più attesa. Ci impieghiamo una mezz’oretta per coprire il 26 chilometri che separano Kuantan da Gua Cheras in mezzo alla campagna a nord-ovest del capoluogo. Intanto chiacchiero (in malese) col tassista che si rivela essere una persona molto aperta: tra le altre cose mi dice che per lui tutte le religioni sono importanti ed alla fine hanno gli stessi obiettivi spirituali.

 

Ad un certo punto mi viene indicato un roccione che si erge dal nulla nel mezzo della circostante pianura: lì dentro c’è Gua Cheras, mi spiega il tassista. Quando vi arriviamo fa veramente impressione vedere quest’enorme formazione carsica spuntare dai palmeti circostanti. All’ingresso vediamo solo un paio di malesi, forse anche loro tassisti, che il mio autista raggiunge per farsi una chiacchierata per ingannare l’attesa. Non c’è nessun altro, forse anche perché ha cominciato a piovigginare. Salgo la prima rampa di scale per raggiungere il piccolo tempio dove un signore mi chiede i due ringgit dell’ingresso, poi comincio ad arrampicarmi su una ripida scala di metallo che mi porta su in alto fino all’ingresso vero e proprio della caverna. Un antro enorme, appena illuminato da una serie di lampioncini artigianali che la percorrono per intero, fino al Buddha reclinato che si trova in fondo alla seconda camera. E a separare le due camere della caverna c’è un piccolo tempio induista, semplicissimo (praticamente un pavimento di cemento con alcune statue), presieduto dagli unici due esseri umani che si trovano in quell’enorme antro oltre a me.

 

Sistemate qui e là alla rinfusa vedo piccole figure del Buddha e di Guan Yin davanti alle quali ci sono ancora piccole offerte di fiori e frutta. I due indiani sono un vecchio ed un giovane, e quest’ultimo si offre gentilmente di accompagnarmi fino al Buddha reclinato, passando accanto a piccole camere laterali da cui provengono gli squittii dei pipistrelli. Chiaramente il tutto è gestito su base volontaria, ma penso che sistemato un po’, magari con qualche finanziamento pubblico (poco probabile) o privato, questo potrebbe diventare un posto carino e persino un’attrazione turistica, un po’ come le grotte buddiste Mahayana che avevo già visto a Ipoh. Ma, lo ammetto, a me piace essere l’unico visitatore in quel momento. Il Buddha reclinato è lungo sette metri, ed è sovrastato da altre tre piccole statue dell’Illuminato, ma pare così piccolo in quell’enorme antro! Dopodiché ritorno al taxi che mi riporta alla stazione delle corriere di Kuantan, da cui prendo il primo autobus disponibile per Kuala Lumpur, fine di un altro interessante e piacevole weekend lontano dal tran tran della capitale.

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