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Tra i Bidayuh del Borneo

Incontro con una delle minoranze etniche e linguistiche del Sarawak

Agosto 2012, domenica 5 pomeriggio. Io e le mie colleghe dell’Università, Patricia e Xiaomei, prendiamo l’aereo per Kuching, capoluogo del Sarawak, una delle due regioni situate nell’isola del Borneo che formano la Malesia orientale. All’arrivo ci attendono alcuni parenti di Patricia, che non solo è del Sarawak, ma è pure di etnia Bidayuh, il gruppo tribale su cui verterà la nostra inchiesta sociolinguistica, finanziata dall’Università. I Bidayuh sono uno dei tanti gruppi tribali che vivono nel Borneo, il quarto per consistenza numerica nel Sarawak (circa 193.000 persone), dopo gli iban, i cinesi ed i malay. Nel passato erano animisti, vivevano principalmente di agricoltura e abitavano nelle cosiddette rumah panjang (longhouses), delle case lunghe su palafitta di legno e fibre vegetali dove viveva l’intera tribù. Ora sono cristiani e vivono in casette in stile malese in numerosi villaggi nella parte occidentale del Sarawak, vicino al confine con il Kalimantan (Indonesia).


Siccome rientra nel nostro budget, la prima notte ci possiamo permettere di passarla nel lussuoso Sheraton Four Points vicino all’aeroporto – nella mia stanza il bagno è quasi la metà del mio monolocale a Kuala Lumpur! – La mattina dopo si fa colazione presto, naturalmente colazione pantagruelica con ogni ben di dio, e poi Matthew, un nipote di Patricia, ci porta in macchina all’Associazione Bidayuh di Kuching (Dayak Bidayuh National Association), dove Josak, il nostro referente dell’Associazione, ci fa da cicerone mostrandoci le varie attività in corso per la salvaguardia della lingua bidayuh, anch’essa della famiglia linguistica austronesiana, ma molto diversa dal malese. Il Bidayuh è una delle tantissime lingue minoritarie della Malesia orientale, e quella che abbiamo deciso di esaminare in termini di vitalità etnolinguistica su stimolo di Patricia, che voleva approfondire la conoscenza della sua cultura tradizionale e fare qualcosa per aiutare a preservarla. Finita la visita, partiamo finalmente per il villaggio di Pasir Hilir, nel distretto di Lundu, un paio d’ore di macchina ad ovest di Kuching, dove comincerà la nostra indagine.

Dopo un’ora e mezza circa, dalla strada che stiamo percorrendo sparisce l’asfalto, e un’altra mezz’ora più tardi arriviamo finalmente a Pasir Hilir, uno stradone sterrato nel mezzo del nulla, affiancato da una quarantina di case, la maggior parte delle quali di legno o, ancora peggio, di cemento ma non rifinite. Le piante ai lati della strada sono completamente ricoperte di polvere, dato che lungo quel percorso passano continuamente camion carichi di legname frutto del disboscamento della giungla non lontana. Sarà forse anche per il jet-lag che non ho ancora superato (ero tornato dalle mie vacanze italiane due giorni prima di partire per questa ricerca), ma la mia prima impressione non è delle migliori. Ci accoglie però molto garbatamente il ketua kampong, il capo villaggio, nella cui casa saremo ospiti per due notti. La sua casa è una di quelle messe meglio, e ci vive con la moglie, assieme alla nuora con tre bei bambini. Il figlio lavora lontano e torna solo nel fine settimana, come la maggior parte dei bambini del villaggio, dato che le condizioni delle strade non permette loro di fare i pendolari ogni giorno (nel villaggio c’è solo una scuola materna), ed il governo finanzia i collegi dove questi bambini passano la settimana. Nella stanza assegnatami c’è un materasso per terra, ed una lampadina appesa al soffitto (l’elettricità è arrivata da queste parti solo da pochi anni), ma l’acqua portata da un lungo un tubo di plastica che scende da una montagna vicina non arriva, e mentre un gruppo di paesani cerca di scoprirne le cause, noi dobbiamo lavarci e pulire il gabinetto utlizzando taniche piene d’acqua. Qui come nella maggior parte dei villaggi che visiteremo il gabinetto è tradizionale, alla turca, senza sciacquone, mentre per lavarsi c’è la tradizionale vascona piena d’acqua da cui si attinge per lavarsi e fare la doccia con un recipientino di plastica con cui ci si versa addosso l’acqua, stando attenti a mantenere quella del serbatoio pulita.

Una scuola materna bidayuh – foto © 2012 Paolo Coluzzi

Iniziamo già dal pomeriggio la nostra inchiesta, col ketua kampong che ci porta di casa in casa, presentandoci e spiegando nella lingua bidayuh alle famiglie presenti come riempire i questionari che abbiamo portato con noi. I giovani, quei pochi che sono presenti, non fanno fatica a completare il questionario, ma per le persone più anziane è dura e Patricia deve ripetutamente spiegare in malese – il suo dialetto bidayuh qui non lo capiscono – il significato delle domande. La maggior parte degli anziani poi non sono mai andati a scuola e non sanno nè leggere nè scrivere. Prendendo un po’ più di confidenza anch’io comincio ad intervistare in malese chi non riesce a compilare il questionario da solo, ricorrendo a Patricia ogni qual volta c’è qualcosa che non capisco bene, anche perché il ketua kampong parla pochissimo inglese. Quasi tutti quelli che intervistiamo sono contadini, gentili e disponibili, che non posseggono molto più dell’indispensabile per vivere, a parte l’onnipresente famigerata televisione. Ogni volta che passa un veicolo sullo stradone, poi, si alza un polverone che arriva dappertutto, il quale, misto al sudore, ci fa sentire costantemente sporchi.

Uno dei momenti più piacevoli, sia qui che negli altri villaggi, è quello dei pasti, durante il quale abbiamo l’opportunità di assaporare semplici specialità locali. Ad ogni pasto si mangia riso bollito con varie ottime verdure locali, alcune delle quali vedo per la prima volta, poi pesce, pollo e carne di maiale. Eh sì, qui la carne di maiale non manca quasi mai, dato che di mussulmani in zona non ce ne sono molti, la maggior parte immigrati indonesiani sposati con donne locali (siamo a due passi dal confine col Kalimantan, Indonesia). Quasi tutti gli altri sono cristiani, avendo abbandonato oramai da tempo la propria religione animista tradizionale per abbracciare quella portatavi dai missionari europei ed americani. È interessante osservare il successo che sta avendo il Cristianesimo tra i non mussulmani, particolarmente tra i gruppi tribali del Borneo e tra i cinesi, che abbandonano le loro ancestrali religioni animiste, taoiste e buddhiste. Mi domando sempre cosa ci sia di così attraente nel Cristianesimo rispetto alle religioni tradizionali… certamente hanno un peso importante l’organizzazione e il senso di comunità che porta il Cristianesimo, e la figura di Gesù Cristo… Ma ad esempio il Buddhismo offre una filosofia di vita sicuramente più raffinata dal mio punto di vista… Quindi credo che da una parte ci sia la poca conoscenza di quest’ultima filosofia da parte della maggior parte dei buddhisti cinesi, per i quali il Buddhismo è principalmente una pratica cerimoniale; dall’altra, aspetto credo fondamentale, c’è il fatto che il Cristianesimo viene dall’Occidente e sia associato ad idee di progresso e modernità. Se il Cristianesimo fosse venuto dal Burundi, non credo avrebbe fatto molti seguaci… Comunque, contenti loro! Mi spiace però che così si sia perso il senso panteistico di unione con la natura che la religione tradizionale enfatizzava, in cui si doveva sempre domandare perdono ad ogni animale che si era costretti ad uccidere, ad ogni pianta che si doveva tagliare, e si doveva rispettare e riverire il riso che permetteva la vita. Ora usare la natura per i propri fini non è più tabù…

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